0 Giovanni Oberti Laghi di Aceto 1

Laghi di aceto (Naufragio con spettatore, Lombardia), 2014 – 2016
Carta geografica in rilievo, tracciatore fluorescente arancione, polvere
65 x 95 cm.
Fotografia Floriana Giacinti
Collezione privata, Bergamo

Vinegar lakes (Shipwreck with spectator, Lombardy), 2014 – 2016
Raised-relief map, orange signal spray, dust
65 x 95 cm.
Photo Floriana Giacinti
Private collection, Bergamo

0 Giovanni Oberti Laghi di Aceto 2

Laghi di aceto, 2016
Veduta dell’installazione presso TILE Project space, Milano

Vinegar lakes, 2016
Exhibition view at TILE Project space, Milano

 

 

La luce diffusa, e leggermente illividita dal neon, rende gli spazi di Tile Project Space una sorta di laboratorio svuotato, un’arena acquea, rilucente, che accoglie con una certa vivezza l’ultimo progetto site specific di Giovanni Oberti (Bergamo, 1982; vive a Milano), dal titolo Laghi di aceto. Sebbene il percorso sia stato concepito per far fruire gli interventi allo spettatore come se quest’ultimo compisse una ricognizione in volo su un mondo di deserti, dalla natura incantata e ormai irriconoscibile, tutto cambia non appena ci si avvicina ai lavori presentati. Luoghi frutto di una topografia continuamente falsata e messa alla prova, sui quali l’occhio si allunga con ancora maggiore velocità del volo intrapreso. Lunghe pozze d’aceto, sparse sul pavimento, mostrano le venature purpuree maturate dal mosto di vino, mentre polveri arancioni disseminano frammenti di oggetti, un tempo interi, che riportano la materia allo stato di molecole nate da un’ancestrale complessità.

Ginevra Bria, Artribune, marzo 2016

 

 

Chiunque nella vita abbia letto il racconto Candide di Voltaire ha sicuramente utilizzato alcuni minuti per chiedersi come un testo così breve possa risultare tanto ricco e intenso. L’opera narra del viaggio di un giovane ingenuo, delle sue peripezie e di quelle dei personaggi che egli incontra, affrontando con acuta ironia numerosi approcci filosofici in voga nel ‘700. Il tutto occupa circa un centinaio di pagine e l’effetto della prima lettura risulta generalmente disorientante. Proprio tale senso di smarrimento e di vaga incomprensione è quello che si può provare lasciando la mostra Laghi di aceto di Giovanni Oberti. All’arrivo, d’altronde, durante la discesa per raggiungere lo spazio sotterraneo di Tile, si riesce soltanto a percepire l’odore sempre più potente di uva macerata, quello tipico di una cantina di vini.
Proprio la scalinata d’ingresso permette al visitatore una veduta d’insieme sull’esposizione: oltre un ampio telo, in una sorta di fantasia Tai Dai, che funge da quinta teatrale, si possono scorgere le ampie pozzanghere di vino e aceto, responsabili del penetrante odore e diventate per lo più aloni cangianti nei toni dell’amaranto e del terra d’ombra. Al centro della sala fa da protagonista una canna da pesca, adattata per girare incessantemente su se stessa, impegnando gran parte del piccolo spazio espositivo e forzando i movimenti dei presenti, oltre alla loro percezione del campo visivo. Negli angoli della sala, alcune carte topografiche e frammenti di bottiglia, ricoperti da un’uniforme tinta arancio fluo, spezzano l’armonia cromatica. Ognuno di questi elementi ha un significato, fino ad averne molteplici e infiniti.
Il primo, più evidente richiamo è quello della percezione aerea su una sorta di paesaggio post-atomico, come è lo stesso artista a definirlo. Laddove il vino e l’aceto versati si mostrano come laghi contaminati accanto a un ambiente fantascientifico, stanno anche come segnali dell’incedere del tempo, quello della maturazione, costante come il ruotare della chiave appesa alla canna da pesca. Così, un paesaggio naturale s’incontra e si scontra con elementi e colori evidentemente antromorfi, come la fluorescenza tipica di situazioni di pericolo ed emergenza.
Laghi di aceto propone una quantità smisurata di interpretazioni, attivando infinite percezioni sensoriali e intellettive, tanto da creare una sensazione di fastidio e spaesamento. L’unica speranza nella ricerca di un fil rouge è quella fornita dai contributi inseriti nella tipica fanzine di accompagnamento alle mostre di Tile project space, dove tutti gli scenari offerti da Oberti si riuniscono su carta stampata. Lasciando la mostra, l’odore di aceto resta per molto e con esso resta la necessità di capire se non sia stato visto troppo, se un’istallazione così piccola possa proporre tante domande, se è come quella volta in cui era appena stata conclusa la lettura di Candide, oppure no.

Giulia Floris, Insideart, marzo 2016

 

 

Il seminterrato di Tile Project Space ha una pianta rettangolare ed è interamente rivestito di piastrelle bianche. È su queste piastrelle, nei loro avvallamenti e tra le loro irregolarità, che si allargano i laghi di aceto di  Giovanni Oberti (Bergamo, 1982). Si tratta di pozze di aceto balsamico e aceto di vino, che colorano la ceramica con la traccia della loro presenza – un alone violaceo o marrone – o riempiono i lievi avvallamenti del pavimento, emanando nella stanza un odore forte. Tra queste pozze una canna da pesca ruota intorno a un perno centrale, una chiave appesa alla canna sonda il territorio senza sosta, come un radar o un satellite. In un angolo due mappe plastificate in rilievo lasciano intravedere un territorio montuoso, una riproduce la zona delle Alpi, l’altra la Lombardia. Le cartine sono ricoperte di vernice arancione fluo, lo stesso colore dei cocci all’angolo opposto della sala, una bottiglia d’aceto colorata e poi spaccata.Parlando della mostra Giovanni Oberti dice di aver voluto sfruttare lo spazio di Tile per sperimentare un’idea che aveva nel cassetto da tempo: utilizzare l’aceto per creare dei laghi, e quindi suggerire un punto di vista aereo, lo spettatore come un gigante con la testa fra le nuvole, che guardando giù, come da un finestrino, scopre un paesaggio – quello in cui normalmente è immerso – sconosciuto ed esotico. Lo spazio di Tile, con il suo reticolo di meridiani e paralleli – le piastrelle – esalta l’impressione di veduta dall’alto, astraendola ulteriormente: i laghi si allargano, irregolari ed organici, con il risultato di formare un paesaggio instabile e delicato. Una delicatezza amplificata dal movimento silenzioso e leggero della chiave, che come una sonda o la luce di un faro percorre lo spazio, muta guardiana del paesaggio, dando forma a un’immagine che ha lo strano potere di far pensare a un futuro apocalittico (nonostante sia composta da materiali “poco contemporanei”, l’aceto, una canna da pesca e una chiave): un ingranaggio che scandaglia senza scopo né utilità un paesaggio appassito, sfinito. Oltre allo spazio, quindi, anche il tempo, quello del moto perpetuo della chiave e il tempo lungo della maturazione dell’aceto.
Scese le scale la vista dello spazio è bloccata da un lenzuolo tie dye, che l’artista ha precedentemente utilizzato per imprimere sul pavimento la pozza di aceto balsamico. Il lenzuolo si pone come un sipario che proteggere il piccolo spettacolo inscenato all’interno. Le due mappe tridimensionali sul pavimento si propongono come chiavi di lettura di questa visione immaginaria, creazioni topografiche che suggeriscono di proseguire il volo d’uccello oltre i loro confini. Il loro colore fluo contrasta con le sfumature naturali delle pozze di aceto e la delicatezza degli aloni lasciati dal liquido ormai asciutto. Un tocco leggero, forse un po’ melanconico, quello di Giovanni Oberti, e una mostra che sfrutta lo spazio di Tile senza forzarne i confini ma anzi assecondandone le caratteristiche strutturali, riuscendo ad unire a un’idea di sedimentazione e di stasi un senso di moto perpetuo, di ciclicità.

Clara Mazzoleni, ATP Diary, marzo 2016